Il futuro ricomincia a Natale

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 di Giuseppina Sarni

Cammino verso casa, trascinandomi dietro una giornata troppo lunga. Solo quando un fiocco di neve mi si appoggia sulla punta del naso e istintivamente alzo lo sguardo, mi rendo conto che stavo avanzando a testa bassa. È la notte di Natale e sta nevicando, da piccola ogni anno pregavo che accadesse. Forse è così che ho imparato che i sogni non si avverano.  

Passo accanto a una bambina, infagottata in un piumino viola. 

«Mamma, ma quando torneremo da Messa sarà già passato Gesù bambino?» 

«Non lo so amore, ha tutta la notte per venire a trovarci!» 

«Lui lo sa che ci teniamo! Sono sicura che troveremo già i regali!» 

Il cipiglio serio della bambina riesce a stapparmi un sorriso. Vorrei avere ancora anch’io quella fiducia nella vita. 

Il mio stomaco brontola rumorosamente e vedo sull’orologio della farmacia che sono da poco passate le ventitré. 

Appena arrivo a casa devo accendere il forno per cuocere la pizza. Poi una bella doccia, che lavi via ogni traccia del turno in ospedale, e finalmente… il divano! 

Mentre mi trascino su per l’ultima rampa di scale, intravvedo qualcosa di strano sulla porta del mio appartamento. 

Mi avvicino con circospezione e vedo che c’è una busta incollata con il nastro adesivo. 

È completamente bianca, non c’è nessuna indicazione del destinatario né del mittente. La prendo in mano e la osservo. Mi guardo intorno, ma sulle altre porte non c’è nessuna busta. 

Probabilmente è un ringraziamento di qualche paziente, ogni tanto succede che mandino qualcosa, anche se capita più spesso in ospedale. 

Strappo il bordo e la apro. All’interno c’è un cartoncino bianco. 

Vi, vuoi fare una cosa bella?” 

Il cuore mi balza in gola e mi precipita nello stomaco. 

C’è solo una persona che mi chiama Vi, uno strano diminutivo per Livia. Ma quella persona non fa più parte della mia vita da dieci anni e non per mia scelta. E quella frase… è quella di quando mi ha convinto a entrare in acqua per imparare a nuotare, a nove anni. 

Ma non può essere lui… non ha nessun senso… 

Nella busta c’è anche un piccolo pacchetto. Lo apro e dentro c’è un biscotto, anzi c’è IL biscotto, quello con le gocce di cioccolato preso nel forno della signora Pia. Ha una forma inconfondibile, ottagonale, con la superficie ruvida. Ma sopra c’è scritto con la cioccolata: SEGUIMI. 

Lo annuso e sento il profumo delle merende con mille di questi biscotti inzuppati nel latte. Non ero sola, allora. 

Rigiro il cartoncino e il biscotto tra le mani. Cerco di respingere i ricordi che riaffiorano a ondate nella mia mente, ma sono troppi e l’immagine di Filippo mi esplode davanti agli occhi. Fa male, sembra che non sia passato nemmeno un giorno. 

Dovrebbe essere in Canada… ma qualcuno ha lasciato qui queste cose e non può che essere lui… 

Cosa vuoi da me? 

Non può ricomparire dopo dieci anni e sperare che io sia disposta a fare quello che chiede. Infilo la chiave nella toppa e la giro per aprire la porta. Ad ogni giro, però, la mia determinazione diminuisce. Arrivata all’ultimo ho dimenticato ogni motivo che avevo per non fare quello che mi ha chiesto. Così richiudo la porta e mi avventuro verso qualunque cosa questa Vigilia di Natale abbia riservato per me. 

Quando esco il freddo mi sembra più pungente di prima e mi sollevo il cappuccio. La pasticceria non è molto lontana da casa mia e in meno di un quarto d’ora arrivo davanti alla serranda abbassata. 

In un angolo, visibile, ma un po’ nascosta, vedo un’altra busta. La apro, questa volta ci trovo solo una foglia lunga e sottile, verde all’esterno e gialla al centro. Un altro pezzo del mio passato ritorna prepotente nella mia memoria. Lunghi e afosi pomeriggi d’estate passati a chiacchierare su una solitaria panchina all’ombra, accanto a una pianta con quelle foglie. 

«Aspetta, hai qualcosa tra i capelli.>  

Le sue dita che mi sfiorano la fronte. Mi sembra di provare di nuovo il brivido di allora. 

So dove andare, ma non so dove sto andando, mentre mi dirigo cercare il prossimo indizio. 

Quando arrivo alla panchina vedo la busta mezza coperta da un sottile strato di neve. 

La apro e dentro trovo un lembo di stoffa rossa con dei disegni geometrici bianchi. È un pezzo di una maglietta, la preferita di Filippo quando avevamo vent’anni. L’ultima sera in cui gliel’ho vista addosso ero ubriaca da non stare in piedi e lui mi reggeva la fronte mentre vomitavo fuori dal garage di casa sua. La maglia si era sporcata quella sera e credevo che l’avesse buttata. 

Mi trovo immersa in quelle sensazioni che credevo di aver chiuso in un cassetto per sempre. Fanno male, ma mi fanno sentire viva.  

Non so più se ho caldo o freddo, non metto a fuoco niente di quello che mi circonda. Mi sembra di camminare sulle sabbie mobili, chiusa in una bolla. 

Arrivo al garage della famiglia di Filippo, È molto grande e staccato dall’edificio principale e aveva una zona arredata con un divano, un ping-pong e una televisione, dove passavamo un sacco di tempo. La porta è socchiusa e c’è luce all’interno. 

Ci sarà Filippo lì dentro? Lo voglio rivedere? 

Ma chi voglio prendere in giro? Certo che lo voglio rivedere, altrimenti non sarei qui. 

Apro la porta di slancio, ma dentro non c’è nessuno. È tutto più o meno come lo ricordavo, ma accanto al divano c’è un bellissimo albero di Natale, pieno di luci colorate, sormontato da una bella stella dorata. 

Un tempo amavo il Natale, già fine novembre facevo l’albero e il presepe, compravo regali e preparavo biscotti. Negli ultimi anni però ho fatto di tutto per far finta che non esistesse. Ora mi rendo conto di quanto mi sia mancato tutto questo. 

Sul divano vedo un libro appoggiato, non può essere lì per caso, così mi avvicino per vedere di cosa si tratta. 

Lo prendo in mano, ma non è un libro, è un quaderno con la copertina rigida blu. Lo apro. 

“Ciao Vi, ti scrivo perché non posso parlarti. Sono appena arrivato a Vancouver e se avessi seguito il mio istinto avrei preso il primo aereo per tornare indietro, per tornare da te. Sono convinto di aver fatto la scelta giusta partendo, ma questo non vuol dire che non faccia male come un osso rotto. O meglio, come un cuore spezzato.” 

Porta la data di dieci anni fa. Il giorno dopo che ci siamo salutati in aeroporto. 

Mi siedo sul divano e leggo pagina dopo pagina, tutto quello che Filippo ha scritto, tutto quello che non mi ha potuto dire. 

“Vi, sono entrato nel team di ricerca per il nuovo progetto! È un satellite per le telecomunicazioni, il responsabile del progetto è un professore dell’Università di Vancouver. Tra trenta persone ha scelto me! Però tu non ci sei e a me sembra di guardare la mia vita sempre più come uno spettatore. Sono felice, ma niente mi fa più battere il cuore.” 

Riconosco nelle sue parole la mia stessa sofferenza. 

“Vi, ho fatto l’amore con una ragazza questa sera. Ci ho provato, volevo andare avanti. Ho preso questa decisione io per tutti e due e il minimo che posso fare è cercare di andare fino in fondo. È stato un disastro, tutto era sbagliato, le carezze, il suo sapore, il suo odore. Non eri tu. E io posso fare l’amore solo con te.” 

Gli occhi mi si offuscano di lacrime. Lo ho fatto anch’io Filippo, anch’io ho cercato qualcuno che riuscisse a farmi provare dei sentimenti, qualcuno che non si fermasse allo strato superficiale della mia pelle, ma che mi penetrasse fin dentro alle ossa. Non l’ho trovato e alla fine ho smesso di cercare. 

Qualche pagina dopo trovo  un segnalibro. Lo guardo e mi rendo conto che è un biglietto aereo di sola andata per Vancouver, ha sopra la data di un anno e mezzo fa ed è intestato a me. 

“Vi, non te lo spedirò quel biglietto. Non posso chiederti di stravolgere la tua vita per seguirmi, non potevo otto anni fa e tanto meno posso ora. L’ho comprato perché volevo credere che esistesse una soluzione. Ho pagato per potermi illudere. Così tanto mi manchi.” 

Le lacrime ormai scendo incontrollate dai miei occhi. Prendo il diario e lo lancio lontano. 

«Perché? Dimmi perché lo hai fatto!» grido. 

«Perché sono un’idiota, arrogante e presuntuoso. Perché ho sbagliato e ho continuato a sbagliare per tutti questi anni!» 

Sobbalzo e il cuore mi va a mille, non so se per lo spavento o perché dopo dieci anni sento di nuovo la voce di Filippo. 

Mi giro verso la porta e lo vedo. Non è cambiato molto, è sempre Filippo, solo più adulto. Vedo le pagliuzze luminose dei suoi occhi color nocciola che brillano al riflesso delle luci dell’albero. Mi sorride incerto e io riconosco ogni dettaglio di lui. Vedo che con la mano destra stringe l’indice della sinistra come fa quando è nervoso. Ha sul collo le chiazze rosse che gli vengono quando sente di non essere preparato per quello che lo attende. 

Mi alzo in piedi e lo fronteggio. 

«Che cazzo ci fai qui? Perché mi hai trascinato in questo pellegrinaggio nel sentiero dei ricordi. Sei un egoista! Non te n’è mai fregato niente di me!» 

«Vi, l’ho fatto perché sono disperato! Dieci anni fa ho scelto io per tutti e due. Volevamo cose diverse, io volevo andare via dall’Italia per lavorare nella ricerca tecnologica, tu invece volevi restare qui, vicina ai tuoi, lavorare in ospedale e mettere su famiglia. Ero convinto che se uno di noi avesse rinunciato ai suoi sogni per seguire l’altro, prima o poi ce ne saremmo pentiti. Così ti ho lasciata.» 

Lo interrompo, il mio sangue ribolle come la lava di un vulcano delle Hawaii. 

«Come ti sei permesso di scegliere per me? Come hai osato lasciarmi facendomi credere che tra di noi fosse finita, che io non fossi più giusta per te? Non ti rendi conto delle macerie che ti sei lasciato alle spalle quando hai portato il tuo culo da genio della ricerca su un aereo per Vancouver! E ora sei qui! Che cosa vuoi, Filippo?» 

«Voglio te, più di qualunque altra cosa! Se ancora provi qualcosa per me, ti prego, dammi una possibilità!» 

La rabbia continua a crescere dentro di me. Vorrei ascoltare, ma mi fischiano le orecchie. Gli anni di dolore che ho passato sono stati inutili. 

«Tu me l’hai data una possibilità? No! Sono passati dieci anni! Dieci anni! Lo sai quanto sono lunghi? Adesso vieni qui con un “ho sbagliato, mi dispiace!”? Sai che ti dico? Vaffanculo e tornatene a Vancouver o dove ti pare!» 

«Non tornerò più a Vancouver, sono rientrato in Italia, definitivamente.» 

«Ti avrei…» le parole mi muoiono in bocca. «Tu cosa?» 

«Ho mollato tutto e sono tornato. Non potevo stare più lontano, stavo buttando via la mia vita. Ho trentaquattro anni e l’unica persona che abbia mai fatto risplendere le mie giornate è qui.» 

«Ma guarda! Un’altra decisione che hai preso tu! E che dovrebbe funzionare anche per me! Non ti è passato per l’anticamera del cervello che io magari non ti voglia più vedere?» 

«È l’unica cosa che mi toglie il sonno questo pensiero! Non sai quanti incubi ho fatto con te che ti allontanavi senza più parlarmi! Ma mi sono buttato! E non me ne andrò più! Qualunque cosa accada fra di noi.» 

«E il tuo lavoro? Quello che era più importante di noi.» 

«Lo ho lasciato, ho trovato un posto da tecnico in un’azienda.» 

Da tecnico? Lui? Ha sempre sognato la ricerca. 

«Te ne pentirai.» 

«No, ho desiderato le cose sbagliate. Non sono fatto per vivere di lavoro, non mi basta!» 

«Non so se riuscirò a perdonarti.» 

«Lascia che io passi i prossimi cinquant’anni a chiederti scusa, ma non tagliarmi fuori dalla tua vita.» 

Lo guardo negli occhi e vorrei veramente dirgli di no, lo vorrei con tutto il cuore, con tutta la rabbia che ho dentro. Ma che senso ha? Nessuno di noi due è riuscito ad andare avanti con la propria vita, negarlo sarebbe solo inutile ostinazione. 

È Natale, mi torna in mente la fiducia che ho visto negli occhi di quella bambina poche ore fa. Voglio tornare a sperare. 

Gli sorrido, senza aver deciso di farlo. Lui avanza di un passo verso di me. Io mi muovo appena verso di lui, ma gli basta per colmare la distanza che ci separa e abbracciarmi. Mi stringe forte, sento il suo cuore che batte contro il mio. 

Filippo appoggia dolcemente le sue labbra sulle mie. Rimaniamo così, mentre i nostri respiri si mescolano ed è semplicemente giusto. Passano i secondi e io mi rendo conto che avevo dimenticato cosa vuol dire essere felice. 

«Non ti ho perdonato» gli dico quando torniamo a guardarci negli occhi. 

«Non importa. Ti amo e ti prometto che il nostro futuro ricomincia oggi!» 


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Una risposta a “Il futuro ricomincia a Natale”

  1. Giuseppina, anche questa volta mi hai emozionata.
    Un racconto, dolce, che da speranza e che fa tornare a credere che a Natale tutto sia possibile.

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