Fiocco di neve

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di Claudia Mantovani

Chiuso nel mio appartamento, osservo i fiocchi di neve cadere del cielo e sbuffo, sapendo che ormai non posso più fingere che il Natale non sia alle porte. 

Non che i numerosi clienti che riempiono il negozio in cui lavoro non me lo ricordino ogni giorno. Loro e i loro numerosi regali. 

Fingo di potermi permettere altri minuti a sorseggiare il mio tè earl grey con latte e isolarmi dal mondo, ma so già che non è così: trasferisco la bevanda calda dentro una borraccia termica e poi esco di casa. 

Scendo le scale, visto che l’ascensore è sempre rotto e, prima di superare la soglia del condominio, mi stringo al collo la grossa sciarpa, per poi calarmi sugli occhi il caldo cappello nero. 

Non vedo l’ora che questo periodo finisca. 

La strada non è tanto lunga, ma, anche a quest’ora, la via è piena di gente che cammina a passo spedito: li distingui subito quelli che vanno al lavoro da quelli che corrono per terminare i regali di Natale, i primi vanno spediti, senza guardarsi intorno, mentre i secondi occupano l’intero marciapiede e intralciano sempre il cammino, per poter osservare più negozi possibili. 

Sbuffo una seconda volta e alzo gli occhi al cielo, lo so che anche oggi arriverò tardi per colpa loro. 

Mi fermo a osservare un fiocco di neve che cade leggero e tranquillo dal cielo: sembra avere tutta la calma del mondo e di potersi permettere tutto quello che vuole.  

Sarà solo a me, ma mi sembra di osservare il re dei fiocchi di neve. 

Scende lento e, come per magia, il vento lo fa ballare all’altezza dei miei occhi per pochi secondi, poi, nell’istante in cui io chiudo le palpebre, cade e mi raffredda la punta del naso. 

Riabbasso il viso e lo scuoto, ricacciando indietro la mia pigrizia e, di buona lena, mi faccio strada per raggiungere il negozio e poterlo aprire. 

Prima inizio, prima finisco. 

Sto per chiudere, finalmente: un’altra giornata stancante per poter stare dietro a clienti esigenti che cercano un regalo per un loro parente, senza nemmeno sapere che cosa vogliano o che cosa gli piace. 

Prima ti dicono che il libro che gli hai consigliato è perfetto per il loro nipotino adorato, poi, però, cambiano idea e ti fanno smontare altri dieci scaffali, prima di tornare al primo proposto. 

Alzo gli occhi al cielo, per la terza volta. 

Il soffitto della mia libreria non mi è mai sembrato più bello di oggi. 

La campanella suona, indicando l’ingresso dell’ennesimo cliente, anche se avevo già messo la targa chiuso. 

“Mi dispiace, ma siamo chiusi.” 

Abbasso gli occhi, cercando l’ennesima signora che si è resa conto di aver dimenticato qualcuno e deve correre ai ripari dell’ultimo minuto, ma, invece, non vedo nessuno. 

Scuoto le spalle e prendo la pila di libri rimasta fuori per colpa dell’ultimo cliente e li vado a rimettere nei giusti scaffali, ma, quando torno al bancone della cassa, ci trovo seduto sopra un bambino. 

“Che cosa ci fai qui? E dove sono i tuoi genitori?” 

Lo chiedo di getto, senza dargli un’ulteriore occhiata, ma lui non risponde e sono costretto a voltarmi di nuovo, vedendo come indica l’alto con il suo indice magro e chiaro, così mi fermo a osservarlo. 

La pelle è bianca e quasi traslucida, gli occhi chiari sono spenti e senza vita, è magro e sembra denutrito. 

Che cosa ti è successo, piccolo? 

Lo penso solo, osservandolo con tristezza e pena, ma lui inclina la testa. 

“Che cosa mi hai fatto è la domanda corretta.” 

Sobbalzo al suono della sua voce da bambino, eppure così abbattuta da sembrare quella di un vecchio in punto di morte. Solo poco dopo, realizzo le sue parole e il mio sguardo cambia da triste a sconcertato e arrabbiato. 

Ma chi si crede di essere ‘sto moccioso? 

Sorride. 

E credo di non aver mai visto niente di più orribile: i denti sono tutti marci, almeno, quelli che gli sono rimasti, mentre le gengive sono nere nei punti in cui non sono sparite. 

Un brivido mi solletica l’intero corpo. 

“Brutto, vero? Eppure, questa è solo colpa tua.” 

Non riesco ancora a credere a quello che dice, ma il suo sorriso mi sta ancora terrorizzando. 

“Mi hai sempre lasciato in un angolo, senza cibo, senza amore e, alla fine, al posto di darmi quello di cui avevo bisogno, mi hai solo odiato e cercato di uccidermi, ma, per quanto io sia messo male, sono ancora qui.” 

Faccio un passo indietro e deglutisco il grumo di saliva che mi si era incastrato in gola. 

“Io non ti conosco nemmeno.” 

Le prime parole che pronuncio nei suoi confronti non sono dure e severe come quelle che dovrebbero essere per un bambino insolente che fa determinati tipi di scherzi: lo sa che non siamo più ad Halloween

“Oh, tu credi, ma mi conosci per forza: io sono il tuo spirito natalizio!” 

Gli occhi mi si spalancano e un nome mi compare nella mente. 

Fiocco di neve, esatto. È così che mi avevi chiamato prima di decidere che il Natale non facesse per te.” 

Alla fine, quel bambino mi ha seguito fino alla mia spoglia casa. 

La mia triste casa. 

Un colpo di tosse lo scuote e facendolo cadere a terra, nonostante tutto, il mio primo istinto è quello di corrergli incontro per vedere come sta, ma lui mi lancia un’occhiataccia e io mi allontano, lasciandolo solo. 

Approfitto della mia solitudine per aprire la porta della camera per gli ospiti, da sempre chiusa, dopo la morte dei miei genitori e ultimo contatto con l’umanità al di fuori del lavoro. 

La polvere regna sovrana lì dentro, ma io cerco una determinata scatola. Una molto piccola. 

Quando finalmente la trovo, la pulisco velocemente dalla polvere e la riporto in sala, dove il bambino è ancora a terra. 

“Che cos’è?” 

La domanda è interrotta da un altro colpo di tosse, ma riesco a sentirla direttamente nella mia mente. La voce è più mite, rassegnata. 

Una voce che non appartiene per niente a un bambino. 

Una voce da condannato a morte. 

Non rispondo e, con mani tremanti, tolgo lo scotch che la teneva chiusa. 

Osservo quel bambino, osservo Fiocco di neve

Forse è questo che mi è sempre mancato, tornare a vivere la vita come quando ero bambino. Anche se tutti mi dicevano che vivevo le emozioni in maniera esagerata. 

Soprattutto il Natale. 

La apro, osservando quella ghirlanda che avevo fatto come regalo per i miei genitori. L’ultimo regalo per l’ultimo Natale festeggiato. 

La afferro, mentre spero di poter prendere anche il respiro che pare mancarmi nei polmoni. Muovo le mani con delicatezza, per paura di romperla e di distruggere definitivamente l’ultimo barlume di vita di quel piccolo bambino sempre più trasparente e rumoroso per colpa della tosse. 

Mi alzo. 

Apro la porta di casa e, prima di appenderla, mi volto verso quel bambino. 

Mi ritrovo a sorridere mentre gli auguro un buon Natale. 

Infine, appendo la ghirlanda. 


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