Il Natale dello zio Salva 

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di Federica Lauto

« Quest’anno non faccio l’albero, Alida. Mi dispiace, ma non lo faccio! »

Aveva detto lo zio quell’anno. Era la metà di dicembre e lo zio era sempre stato l’addetto agli addobbi. Di solito preparava l’albero, decorava l’ingresso col vischio, tirava fuori dalla cantina le statuine del presepe e appendeva le luci in giardino. Ma quell’anno, a quanto pareva, no.

Quella domenica eravamo in casa degli zii, faceva freddo, il cielo era bianco e prometteva neve. Per alcuni mesi avevo abitato lì, dopo che ero tornata da Padova per fare l’assessore, un lavoro che stavo cercando di capire come fare, ma di recente avevo comprato una casa e adesso andavo a trovarli durante il weekend.

A quell’annuncio, io e la zia avevamo provato a protestare.

« Io non lo sento il Natale, Alida. Cosa ti devo dire? Non lo sento! Tutte queste epidemie, ‘ste sfortune nel mondo. Per me non c’è niente da festeggiare. »

« Va ben. Fa’ quel che tu vol. »

Aveva detto la zia alzando le spalle.

« Ci facciamo gli auguri, due baci sulle guance e chi si è visto si è visto, caro mio. »

Aveva aggiunto lo zio, che aveva l’abitudine di dire caro mio, anche se ad ascoltarlo eravamo in due ed eravamo femmine.

Quella sera lo zio era andato a dormire, dopo aver guardato con la zia la solita puntata di Ballando con le stelle, si era coricato rabbrividendo – Che freddo, caro mio – aveva commentato, e si era addormentato di botto. Fuori il vento fischiava. 

La mattina dopo, quando si era svegliato e aveva aperto le finestre del soggiorno, si era trovato davanti, sotto il cielo bianco, un enorme albero di Natale. Era gigantesco. Troneggiava al centro del giardino, fra la siepe con le bacche e le piante in vaso, al posto della barca con cui d’estate andavamo in Banco D’Orio e che ora era vicino all’albero di cachi.

« Alida! » Aveva gridato lo zio.

« Porco Giuda, Vacca Boia » aveva aggiunto, rispolverando il suo vecchio repertorio di imprecazioni.

La zia lo aveva raggiunto in vestaglia.

« Che xè ? Che xè nato? »

« Alida, guarda qua, porco Giuda. »

« Che xè ? Eh ben, xè un albero de Nadal. Te xè vignuo ben. Ma quando tu t’ha alsao per falo ? »

« Ma Alida, non capisci? Non l’ho fatto io, Vacca Boia. »

« Tu son siguro? Ultimamente tu te desmenteghi un mucio de robe. »

« Ti dico che non l’ho fatto io! Che storia! »

Lo zio si era stropicciato gli occhi. Ma l’albero di Natale era rimasto là.

Più tardi, quella mattina, avevo sentito suonare il telefono. Era lo zio.

Mi ero dovuta allontanare dalla riunione in sala giunta, dove stavamo discutendo una delibera che avrebbe dovuto concedere dello spazio in più a un bar che aveva i tavolini all’aperto, e si discuteva appunto se approvarla o se, approvandola, rischiavamo di vederci arrivare simili richieste da tutti gli altri bar col risultato di avere Grado invasa dai tavolini, quando lo zio aveva chiamato.

« Dimmi zio » avevo risposto, uscendo dalla sala giunta a malapena decorata e infilzando il tacco su un pezzo di vischio caduto per terra.

« Federica, sei stata tu a fare l’albero di Natale? »

« No, veramente volevo farlo oggi, ma con le gatte non so dove metterlo, quelle mi si arrampicano dappertutto. »

« No dico qua in giardino, da noi! »

« Come? »

Lo zio mi aveva spiegato tutto agitato la faccenda. 

« Allora, sei stata tu? »

« Ma zio, ieri ero al consiglio comunale e sai benissimo che il consiglio dura sette, otto ore e che dopo sono distrutta e devo andare a casa a prendermi un Moment per il mal di testa. »

« E non è stato uno di quei tuoi morosi che ne hai sempre troppi? »

« Ma lo sai che dopo una volta che li ho visti mi stufano tutti. »

« Già, non sei mai contenta. Eri così fin da piccola. Solo se ti davamo dei libri stavi buona. »

« Federica, vieni a votare! » Mi avevano chiamato dalla sala giunta.

« Adesso ti devo salutare, zio. Secondo te, i tavolini in centro sono un bene o un male? »

« Un male! Tutti a bere, state sempre. E dopo non vedete cosa succede a un palmo dal vostro naso. »

« Hai ragione, zio. Ciao. »

Dopo la telefonata, lo zio era uscito in giardino. Aveva girato intorno all’albero. È proprio grande, aveva pensato. E in effetti era enorme. Alto quasi cinque metri, e strapieno di palle rosse, bianche, argento. Ce n’erano perfino alcune trasparenti con la neve dentro. Aveva fiocchi dorati dappertutto, omini di pandizenzero che sorridevano dai rami e bastoncini di zucchero. E, in cima, una punta piena di lustrini.

« Eppure qualcuno deve averlo portato! »

Aveva sbottato lo zio.

In quel momento era passato il suo vicino Nicola.

« Nicola! » Lo aveva chiamato lo zio e gli aveva chiesto se sapeva qualcosa dell’albero ma Nicola, che era mezzo sordo, quando dopo la terza volta aveva capito cosa gli stava chiedendo, aveva giurato allo zio sui friarielli del suo orto che non era stato lui. Neanche la signora Mazzetto era stata. 

« Beatrice, per caso sei stata tu a far portare il mio albero? »

Aveva chiesto all’altra vicina. 

« Figurati Salvatore, ieri ero al centro commerciale a portare mio nipote a scegliere i regali di Natale. »

Neanche la Mara e suo marito erano stati.

« Ieri erano a trovare i loro figli a… non mi ricordo più dove! »

Aveva urlato lo zio entrando in cucina.

« Sta’ calmo, Salvatore. »

Gli aveva risposto la zia.

« Ma come faccio a stare calmo, porco Giuda? »

Calmo o no, nel pomeriggio, era dovuto andare a Grado, dove aveva appuntamento con l’associazione dei Graesani de Palù per allestire il presepe che ogni facevano nella piazza della Basilica.

« Ehi Salva! Co’ belo al tovo albero. Son passao davanti a casa tova, prima, e ‘l xè proprio belo. »

Gli aveva detto Oscar, un Graesano.

« Che roba? » Aveva chiesto un altro Graesano.

« L’albero de Nadal de Salvatore. Ne ha fato un proprio belo, va’ a veghelo. »

« E co’ grando » aveva aggiunto un altro.

Lo zio, esasperato, era andato a sistemare Gesù Bambino sulla mangiatoia e si era beccato pure una ramanzina perché lo sanno tutti che Gesù Bambino si tira fuori solo a Natale. 

Più tardi, aveva chiamato anche i Verona, una coppia di amici con cui tutte le domeniche lui e la zia si trovavano per giocare a carte.

« Peppino, sei stato mica tu a farmi portare l’albero di Natale? »

« Ma che dici Salvatore? »

Aveva detto Peppino Verona col suo accento sardo.

« Che cos’è questa storia dell’albero di Natale? Non lo hai fatto tu quest’anno? »

« Lascia stare, Peppino ti racconterò quando ci vediamo. »

« Va bene, ciao. »

« Ciao, ciao. »

« Non l’avete fatto portare da, come si chiama, Amazzon? »

Mi aveva chiesto quella sera a cena, non contento.

« Ma zio, Amazon ti porta le cose ma non te le monta, non è mica l’Ikea. »

« Allora avete chiamato l’Ikea. »

« A parte che di alberi non ne hanno già più ma, ammesso che te li portino, mica li addobbano. »

« Sarà » aveva detto lui, poco convinto « Ma io non ci credo! »

E aveva telefonato a mia cugina Jessica e a suo marito Alberto che vivono a Baltimora, perché proprio non era in grado di rassegnarsi.

« Adesso chiamo gli americani. » Aveva detto. « Quelli lì sono sempre fissati con gli addobbi, fanno tutto in grande. Magari stavolta li hanno mandati qua. »

« Ma zio Salva » gli aveva chiesto mia cugina Jessica.

« Come avremmo fatto a farti arrivare un albero di Natale dall’America? In aereo? In nave? »

« E che ne so, voi americani ne sapete una più del diavolo. »

Aveva detto a mia cugina che in realtà era di Carate, in Brianza.

« E vostra figlia, non è stata quella lì? »

« Alessandra sta tornando oggi dal college. »

Allora lo zio aveva telefonato alla sua, di figlia, mia cugina Francesca, che viveva a Vienna e da anni si interessava di ayurvedica, ma lei era in Spagna in una clinica che faceva i massaggi con l’olio di argan. 

Picchiando con forza le dita sul cellulare lo zio aveva chiamato suo figlio ma mio cugino Stefano era di turno all’hotel Hannover e suo figlio Iangabriel gli stava dando una mano al bar. Allora, disperato, lo zio aveva chiamato perfino mio papà, che aveva riso di gusto e aveva voluto sapere tutto ma aveva detto che no, non era stato lui. Da Roma cosa poteva fare e comunque in quei giorni era in gita con l’Associazione Astrofili Italiani a Salsomaggiore dove si vedeva bene non so più quale stella.

Poche ore prima aveva interrogato anche mia madre e mia sorella, incontrate davanti alla Panetteria Sandrigo dove erano andate a prendere il pane, ma mia sorella il giorno prima era a lavorare da Desigual e si era fermata fino a tardi per fare l’inventario e mia madre si era addormentata sul divano guardando il computer però si era offerta, se lo zio lo voleva, di fare qualche addobbo per l’albero all’uncinetto, che lei era bravissima a lavorarlo.

Lo zio se n’era andato bofonchiando, così nervoso che si era dimenticato di prendere i soliti otto bocconcini e le cinque mantovane e la zia lo aveva sgridato. 

« Vacca Boia, Alida. » Si era arrabbiato lui. « Mi son dimenticato! Cosa devo prendere, oggi? » Aveva aggiunto, guardando il calendario, e la zia gli aveva detto che quello era il giorno delle cardioaspirine.

Dopo aver preso la cardioaspirina si era accorto che sull’albero, oltre agli addobbi, erano comparsi anche dei capelli d’angelo. Quei lunghissimi fili argentati accarezzavano l’albero in tutta la sua altezza. Allora, come ultima spiaggia, chiamato mio cugino Ale, con cui nei Natali in cui era ancora viva mia nonna, lo zio faceva discussioni infinite su argomenti futili, nella pausa fra il pranzo di Natale e il momento in cui si tirava fuori la tombola.

« Alessandro, non è che per caso voi, o i bambini? »

Mio cugino si era fatto spiegare.

« Ma zio, io e la Mariana siamo in ufficio a Milano e lavoriamo fino a tardi e sai quanto ci si mette a tornare da Milano in questo periodo col traffico, e Jacopo e Francesco sono con noi, cosa possiamo fare da qua? Comunque, alla fine, ti sei deciso a fare il bonus del 110%? Perché secondo me non ti devi fidare. »

E lì si erano rimessi a litigare con gran gusto reciproco. Poi lo zio aveva messo giù il telefono.

« Questa famiglia » aveva commentato « mi farà impazzire. »

La sera, prima di chiudere gli scuri, aveva gettato un’ultima occhiata fuori, in giardino. L’albero di Natale lo guardava fra le ombre della notte, in mezzo alle case illuminate dei vicini e, con aria di sfida, si era appena acceso di mille luci colorate. Lo zio aveva chiuso gli scuri ed era andato a dormire.

Nei giorni seguenti si era dovuto rassegnare. L’albero di Natale c’era e non spariva. Anzi, la mattina dopo, erano comparsi anche mille pacchetti sotto l’albero, belli incartati con una carta dorata piena di campanelli. Alcuni erano oblunghi, altri quadrati, altri voluminosi e tutti dotati del loro biglietto di auguri.

« Alida! Pure i regali ci sono! »

« Porteli drento che co’ sto fredo fora i se rovina. »

Aveva detto la zia. Lo zio li aveva portati dentro. I pacchetti erano stati messi in un bell’angolo sotto una mensola che la zia stava riempiendo di candeline. Gli pareva pure che sapessero di cannella.

« Adesso ci mancano solo la neve e Babbo Natale! » Aveva gridato lo zio ed era tornato a Grado ad aiutare i Graesani de palù.

Avevano lavorato per tutto il pomeriggio. Il presepe ora era pronto luccicava nella sua nicchia della Grado Vecchia. Al posto della grotta era stato costruito un piccolo casone, una delle abitazioni tipiche dei primi gradesi, che abitavano in mezzo alla laguna. I Graesani de palù avevano ammirato soddisfatti il loro lavoro. 

Quell’anno avevano contribuito molto ad addobbare la città ed era giusto andare a festeggiare. Si erano quindi incamminati lungo il porto. Una neve leggera cominciava a cadere.

Costeggiando la banchina, erano passati fra i lampioni decorati con fili di luci. Corone di vischio erano appese sulle porte dei negozi e fuori da ogni locale era stato messo un piccolo albero. Lo zio aveva storto il naso. Il Natale quell’anno non gli chiedeva il permesso. 

Si erano fermati a bere un bicchiere di vino al bar Al Porto. I fiocchi di neve sprofondavano nell’acqua. I Graesani, intanto, parlavano del loro menu di Natale.

« Gno muger la farà le canoce. »

« No, noltri ‘ndaremo al ristorante. »

« Ah, ve traté ben. Noltri semo da gno suocera. Vemo xà dozento panetuni. E tu Salva, che tu farà de magnà? »

« Ah, Marietto, io le solite cose, non so… »

« Te vego un poco distrato sto Nadal. Tò, ciapa un bicer. »

Gli aveva detto Marietto e gli aveva passato un bicchiere di rosso.

Lo zio Salva aveva bevuto il vino, pensando a quel grande albero di Natale che lo aspettava in giardino, pieno di luci, di addobbi, con tutti quei pacchi che aveva trovato sotto e aveva detto a Marietto:

«Versami ancora un altro po’ di vino, và! »

Tornando a casa, la strada era coperta di neve. Lo zio attraversava quel bianco reso luminoso dai lampioni. Era solo pomeriggio ma alle cinque faceva già buio. Il vento gelido si infilava in macchina, facendo dispetti sulla sua testa pelata. Si era pure dimenticato il cappello… Non gliel’avrebbe mai detto, ma Alida aveva ragione: ultimamente si dimenticava troppe cose.

Parcheggiando davanti al garage gli era parso di vedere qualcosa. Non avrebbe saputo dire cosa però tintinnava. Un’ombra era salita verso il cielo, scomparendo in fretta. Dietro era rimasta solo una scia di luce. Lo zio era sceso dalla macchina. Qualcuno aveva pure appeso delle luci lungo la facciata, una di quelle cascate di lampadine di cui facevano la réclame per televisione.

« Ma è una cosa pazzesca! »

Aveva commentato lo zio. E si era avvicinato all’albero che, quella sera, sembrava ancora più illuminato.

« Non credi di aver dimenticato qualcosa? »

Gli aveva chiesto un tipo. Era basso, vestito di verde e stava nel suo giardino. Lo zio era sobbalzato. 

« E lei chi è ? »

Aveva chiesto guardando quelle strane orecchie a punta.

« Ho detto: non credi di aver dimenticato qualcosa? »

Per un attimo lo zio si era toccato la testa e aveva detto:

« In effetti ho dimenticato il berretto »

« No, pensa meglio. Non è questo che hai dimenticato »

« E cosa ho dimenticato? »

« Il senso del Natale »

« Ma lei chi è, scusi? »

« Io sono lo Spirito del Natale. E sono qui per ricordarti il senso del Natale »

« Ma io non la conosco. E non capisco cosa ci faccia a casa mia »

« Ma sì, che mi conosci, Salvatore. Non ti ricordi? Ci siamo visti tante volte. Quella volta che ha nevicato in Sicilia, dove non nevica mai, e tu e i tuoi fratelli siete corsi fuori con lo slittino. O quando sei entrato dentro casa, la Vigilia, e hai trovato in cucina tua mamma e tua nonna che friggevano a tutto spiano. O quando facevi i super otto filmando i tuoi bambini davanti al presepe di via Roma o quando hai aiutato ad allestire la casetta di Babbo Natale in Casa della Musica, a Grado. A proposito, era lui prima, nel cielo. »

« Chi? »

« Babbo Natale. Gli ho chiesto di lasciarmi qua un attimo. Ho cercato di darti un sacco di segnali, in questi giorni, ma tu sei un po’ duro di comprendonio. Ti ho preparato l’albero, e ti ho fatto i pacchetti, ma tu niente. Mi sono messo in mezzo alle luci quando ti sei avvicinato per guardarle e c’ero anche fra i pacchi però tu non hai visto niente. C’ero pure a Grado, mentre facevi il presepe e ti ho fatto mettere Gesù Bambino sulla mangiatoia, sperando di farti ricordare qualcosa, ma anche là non c’è stato verso. Così ho deciso di farmi vedere di persona. Ci siamo visti molte volte. Io sono quello che ti ha fatto insegnare ai tuoi figli a sciare, certo bisogna dire che spesso ti inalberi, però hanno imparato, e sono anche quello che ti fa accendere il caminetto per i Natali in taverna. Ero in via Roma e in Sicilia, a Trieste quando guardavi il mare durante i tuoi inverni nella guardia di finanza, perché io so trasformare il freddo in occasioni per stare insieme e il fuoco del caminetto in occasioni per parlare, e tu hai fatto tutto questo per anni. Perché adesso vuoi rinunciare? »

« Ma tutte queste cose brutte nel mondo e poi questo casino che facciamo sempre… »

« I casini si possono appianare e alle cose brutte nel mondo dobbiamo rispondere con la bellezza. Ritrova i tuoi ricordi. »

Aveva detto lo Spirito del Natale.

« Loro ti mostreranno la via »

Poi era sparito in un turbine di vento. Lo zio aveva pensato di essersi immaginato tutto. Non avrebbe dovuto bere il vino che gli versava Marietto. Ma poi si era accorto che nella mano aveva un fiocco di neve, che scintillava. 

E all’improvviso si era ricordato tutto. Della prima neve vista in Sicilia, del freddo che soffiava veloce sul mare, delle discussioni che faceva prima della tombola, e delle chiacchiere davanti al caminetto, e di tutto quello che combinava quella sua famiglia così numerosa e chiassosa. Il fiocco di neve nella sua mano si era messo a brillare ancora di più. 

Lo zio era entrato in casa con gli occhi lucidi ed era andato dritto in cucina.

« Alida, ho capito tutto! Dell’albero, sai? »

« Che roba?»

Aveva chiesto la zia.

« Adesso vado a comprare gli ingredienti per il pranzo di Natale. Tu stai qua, riposati, anzi, sai che faccio? Compro anche una tombola nuova, che quella che abbiamo avrà duecento anni e quando mettiamo i fagioli sopra i numeri poi quelli scivolano e non ci ricordiamo più che numeri sono usciti, e poi tutti fanno cinquina con dei numeri diversi. Adesso ne prendo una con le finestrelle. »

La zia stava ascoltando sulla radio due regionale un coro di voci bianche che cantava canzoni di Natale e non le dispiaceva restare ad ascoltarlo mentre lo zio faceva la spesa.

« Va ben, ma no sta spende massa soldi! »

Si era raccomandata.

Lo zio però era già uscito. Fuori cadevano i fiocchi di neve. Il coro di voci bianche aveva attaccato Bianco Natal.

Il giorno di Natale ci eravamo ritrovati tutti in taverna, come ai vecchi tempi. Il fuoco scoppiettava nel camino. Avevamo appena finito di mangiare. Fra poco qualcuno avrebbe preso la tombola. Quella nuova. La zia Alida stava sparecchiando assieme alla zia Bruna. Avevamo mangiato tartine al salmone, gnocchi ai fasolari, patate arrosto, l’insalata dell’orto, formaggi di tutti i tipi e la famosa parmigiana di melanzane che la zia aveva imparato a fare dalle sorelle dello zio a Messina. Alberto stava schiacciando le noci e mio cugino prendeva le arance, mentre mia cugina Francesca si stava arrabbiando perché qualcuno voleva acquistare gli ultimi regali su Amazon e lei odiava tutte le multinazionali. Alessandra stava chattando con le amiche in America e mia mamma versava lo zucchero a velo sul pandoro mentre la cagnolina di mia sorella andava in giro in cerca di briciole. Le altre e gli altri parlavano con mio papà in videochiamata da Roma, che sarebbe arrivato l’indomani, e le mie gatte dormivano rannicchiate davanti al caminetto. Francesco e Jacopo erano venuti ad accarezzarle. Da fuori si sentiva qualcuno cantare canzoni di Natale. Lo zio era salito un attimo a prendere la tombola. 

« Siete stati proprio bravi » avevo detto a Francesco e Jacopo. « Quel gioco di luci sulla parete dello zio, e l’ologramma dello Spirito del Natale e del fiocco. »

« È stato difficile fare tutto nascosti dietro la siepe ma per fortuna con quelle luci noi restavamo in ombra, e meno male che Alessandra aveva trovato su YouTube quel discorso dello Spirito del Natale. »

« E ho fatto una fatica a trovarlo » aveva detto lei. « E a tagliarlo e rimontarlo con i consigli della nonna Bruna! »

« Ma siete stati velocissimi! »

Avevo osservato io. In effetti era stato un gioco di squadra.

Dopo aver parlato con lo zio, la zia aveva avvisato la Jessica in America e lei e Alberto avevano cercato su Internet l’albero di Natale più grande del mondo. L’avevano trovato su un sito coreano e Alessandro aveva rintracciato la ditta italiana capace di mettersi in contatto con loro. Sua moglie Mariana gli aveva scritto subito. Per fortuna, mio papà li conosceva perché erano degli astrofili appassionati di eclissi e così gli avevano fatto un favore. Però non avevano più camion perché erano tutti fuori per le consegne, così mio cugino Stefano aveva convinto la ditta che portava in lavanderia la biancheria del suo albergo a prestargli un mezzo e suo figlio Iangabriel l’aveva guidato fino a Milano ed era andato a ritirare l’albero.

Mia sorella aveva comprato i regali nel suo centro commerciale e mia mamma li aveva caricati in auto. E mia cugina Francesca, che in realtà era tornata prima dalla clinica ayurvedica, aveva fatto i pacchetti. E li aveva pure profumati. La zia Bruna aveva spedito i bigliettini, che aveva scritto assieme a Paola, la mamma di Mariana che da qualche Natale si univa a noi. I Verona, divertiti all’idea di partecipare, avevano portato gli addobbi, e li avevano appesi coi vicini. E grazie ai Graisani de Palù che avevano distratto lo zio nei giorni seguenti, l’albero era stato sempre più addobbato e illuminato. 

La notte in cui era arrivato, la zia aveva fatto una camomilla allo zio prima di Ballando con le stelle, sapendo che la camomilla lo avrebbe steso, e io avevo fatto montare l’albero ai miei morosi, in quel periodo ne avevo tre, di cui uno era vigile e aveva fermato il traffico per farlo arrivare il prima possibile. 

Poi, quando nei giorni seguenti era arrivato Ale coi suoi figli, Jacopo e Francesco avevano sparato il gioco di luci, mettendo in sottofondo l’audio preparato da Alessandra. Eravamo davvero soddisfatti.

Ora i Verona stavano entrando con una bottiglia di liquore.

« Giusto in tempo, Peppino » aveva gridato lo zio, che era appena sceso con la tombola nuova. 

« Sai che quest’anno quasi non festeggiavo il Natale? Ma poi mi sono ricordato di tutte le cose belle che si vivono in questo giorno e ho cambiato idea. Hai visto che bell’albero di Natale ho quest’anno? Vieni. »

E aveva accompagno Peppino e la moglie Elvia in giardino per mostrarglielo.


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