Impressioni

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di Corinna Corti

«Ari, sei sicura di quello che stai facendo?»
Lo strombazzare del clacson copre per un attimo la voce di Elisa, trasformando i suoi
rimproveri in un roco gracchiare di sottofondo. Impreco e con una brusca sterzata sorpasso
l’ennesimo vecchietto della giornata che mi si è parato davanti.
«Imbecille! E muoviti una buona volta!»
Il motore romba, Elisa sbuffa e le casse dell’auto dal quale mi sta parlando frizzano di
tensione statica. Anche io friggo, e non di elettricità.
«Ma si può sapere che cos’ha la gente ultimamente?» rimbrotto dopo un attimo,
imbronciata.
«La gente non ha niente, Ari» sospira Elisa, «sei tu che ti devi dare una calmata.»
«Venti all’ora su una provinciale non è da calmata!» sbotto invece, furiosa. «Ma dimmi un po’
se devo starmene qui a-»
«È proprio per questo che non volevo partissi. Ma sentiti, sei a un passo da una crisi di nervi
e nemmeno te ne accorgi» mi interrompe di nuovo lei.
Serro la bocca, sbigottita, ma mi ci vuole meno di un sorpasso per riprendermi
dall’indignazione.
«Sto benissimo, Eli. Da quando in qua stanchezza è sinonimo di crisi di nervi?»
«Da quando è diventata cronica» mi incalza. «Quanto tempo è che non ti prendi un weekend
di riposo?»
«Siamo sotto Natale.» Sterzo così velocemente che temo mi si sia slogato un polso. «Fino
alla fine delle feste quella parola è bandita.»
«Così come la tua salute?»
«Maledizione!» sbotto e per poco non finisco contro un marciapiede mentre allontano
contemporaneamente tutte e due le mani dal volante. «E’ lavoro. Lavoro!» scandisco le
parole con ferocia e riguadagno la carreggiata. «Credi che mi diverta fare orari del genere?»
«Devo proprio risponderti?» mi provoca.
«No, lascia stare. Te lo dico io: no. Non mi diverto. Anzi, per tua informazione sono la prima
ad averne piene le scatole di rimbalzare da una parte all’altra come una scheggia impazzita.
Ma devo lavorare, e se non in questo periodo dell’anno quando lo faccio?»
«Negli altri. E non fingere che ti manchi lavoro perché so che non è così. Sei una fotografa
più che affermata e non è in questo modo che accrescerai la tua clientela.»
Stringo così forte il volante che le dita sbiancano. «Questo lavoro è molto importante.»
«Anche quello prima. E quello prima ancora, e ancora…»
«Sì, sì ho capito» la interrompo. «Non serve che usi quel tono: so bene dove vuoi arrivare.»
E non mi piace.
Del resto ultimamente non mi piace mai nulla di ciò che Elisa ha da dirmi.
Il silenzio che segue è più che eloquente, inframmezzato soltanto dal mio secco cambiare
marcia ogni volta che imbocco un tornante a gomito. La ripetitività del gesto mi snerva, così
come il gemito contratto del motore, ma preferisco quello al costante petulare della mia
amica.
«Io e Marco ti aspettavamo per la vigilia» riprende lei dopo un momento.
Lo so. Come ogni anno. Ma questa volta il lavoro ha avuto la meglio e per quanto la cosa mi
stranisca, ancora non sento fiorire in me alcun senso di rimpianto o tristezza.
Mi stringo nelle spalle. Sterzo. Ingrano la terza.
«Pazienza, Eli, evidentemente non era-» non termino la frase perché proprio in quel
momento un’auto mi si staglia letteralmente davanti, occupando il mio senso di marcia. E’
spuntata dal nulla, un muso grigio proveniente da una traversa, e prima che riesca a reagire
e cambiare traiettoria le finisco contro, speronandola con tutta la ferocia che i miei ottanta
all’ora possono sprigionare. Il fracasso è terribile e di nuovo abbastanza alto da sovrastare
la voce di Elisa che blatera qualcosa prima di venire zittita dall’orribile schianto di metallo
contro metallo, vetri che vanno in pezzi e l’inutile stridio di freni che dal mio pick up si dipana
ovunque, lacerando il silenzio di quella fredda mattina pre-natalizia.
Quando mi riprendo il mezzo ha arrestato la sua corsa e tutt’attorno percepisco già il
familiare odore di bruciato delle gomme, freni e motore. Ho le mani piantate sul volante,
salde a ore nove e quindici, e il respiro corto, affannato. Sbatto le palpebre e d’istinto allungo
la mano destra sullo schermo del computer di bordo per interrompere la chiamata con Elisa.
Troppo tardi, la comunicazione è già saltata. Del resto lo schermo è nero e crepato.
«Eli?» domando, certa di sentire la sua voce squillante rispondermi dalle casse, ma non
accade, lei non risponde, e un attimo dopo io sono fuori dalla macchina, traballante sulle
gambe mentre chiudo la portiera, faccio il giro del pick up e constato il danno: il paraurti è
distrutto, e dal radiatore esce fumo.
Deglutisco e solo allora giro lo sguardo verso l’auto grigia, quella che mi ha tagliato la
strada, ferma a un metro dalla mia. La portiera di sinistra è completamente distrutta, piegata
verso l’interno come se una decina di Edward Cullen l’avesse presa a cazzotti, e il
conducente non si vede.
Deglutisco. Mi avvicino.
Nei film di solito i protagonisti parlano molto in queste situazioni: hey? Tutto bene? C’è
qualcuno?
A me invece non viene nulla da dire, e anche quando sporgendomi oltre il finestrino della
portiera scorgo una figura accasciata, non brillo di inventiva.
Deglutisco. Prendo fiato. Infine scoppio a piangere. E si, chiamo anche l’uno uno due.
I vigili del fuoco ci mettono un po’ a tirar fuori il ragazzo intrappolato, la lamiera si è infatti
pressata tanto sulle cerniere che è possibile aprire la portiera solo utilizzando ganasce e
tanta, tantissima pazienza. Del resto non c’è granché da fare: la carrozzeria dell’Opel Meriva
che mi ha tagliato la strada pareva pronta a tutto, tranne che all’incidente avuto con il mio
pick-up lanciato di gran carriera – forse un po’ troppa, in effetti – sulla strada.
Quando i poliziotti mi chiedono la dinamica dell’incidente balbetto qualcosa riguardo la
marcia un po’ sostenuta, l’improvviso pararsi di fronte a me dell’altro mezzo…e che altro?
«Stava guardando il cellulare?» aggiungono come se sapessero già tutto.
Scuoto il capo. No, per una volta. «Ho il bluetooth sull’auto» mi giustifico.
«Ma stava correndo parecchio, sì?»
Abbastanza.
Balbetto qualcosa riguardo il periodo un po’ stressante, il lavoro che mi aspetta, le
attrezzature nel bagagliaio-
«Sa che è la vigilia di Natale, sì?» mi fermano loro.
Sbatto le palpebre. «E quindi?»
Prima di capire l’esito di quella risposta mi ritrovo sull’ambulanza giunta per rimediare al mio
disastro in compagnia di un paio di infermieri, un paramedico e l’uomo dell’altro auto,
finalmente estratto dall’abitacolo e ora bendato di tutto punto manco fossimo ad Halloween e
non Natale.
Provo a guardarlo di sottecchi, imbarazzata e colpevole per ciò che gli è successo, e quando
noto che è addormentato mi rilasso, concedendomi finalmente di rivolgergli un’occhiata
come si deve e…mi blocco.
O Santo Cielo.
O Santo…santissimo…
«Signora, tutto bene?» mi fa sobbalzare l’infermiere accanto a me forse male interpretando il
mio sguardo di puro e autentico terrore.
Deglutisco, provo ad annuire. Ritento. Rinuncio. Poi vengo fulminata dalla necessità di
prendere il cellulare per fare una chiamata. Ma no, orrore, non ho con me né la borsa né il
prezioso santino tecnologico.
«Dove sono le mie cose?» scatto allarmata.
In macchina, mi rispondo dopo un attimo, prima che lo sconforto mi travolga.
«Le misuro la pressione» annuncia l’infermiere e subito comincia a trafficare con la borsa del
paramedico.
«Lasci stare. Sto benissimo» bofonchio con una nota di fastidio.
Ma non è vero. Non è affatto vero, perché ora mi trovo su un’ambulanza senza borsa né
affetti personali e davanti a me c’è l’oggetto del mio prossimo servizio fotografico, quello per
cui stavo letteralmente sgommando lungo le tortuose strade della Valtellina ignorando
qualunque buonsenso e precauzione.
Deglutisco a vuoto.
Come si chiamava?
Gabriele Fontana. Trentatrè anni. Capo di una stamperia.
E lei? Come faceva di nome la futura moglie che aveva richiesto il servizio fotografico
pre-matrimonio?
Elisa Fumagalli. Stessa età, avvocato di successo nello studio legale Fumagalli e figli.
Sento le dita formicolare mentre realizzo il guaio che ho combinato, nonché il dramma che
già comincia a profilarsi all’orizzonte. Chiudo gli occhi. Li riapro. Li richiudo.
Ed è così, aprendo e chiudendo le palpebre che mi ritrovo nella sala d’attesa del Pronto
Soccorso con il caporeparto che mi subissa di domande.
Ha qualcuno da chiamare? Perché non ha con sé il cellulare? Come sarebbe a dire che non
ricorda a memoria nessun numero?
Per farlo smettere sono costretta a fingere – ma non così tanto – un mezzo svenimento.
Quando però lui finalmente desiste e mi lascia sola su una barella nel bel mezzo della
corsia, il sollievo è di breve durata, presto sostituito da un ben più noto senso di
apprensione.
Del resto non sono mai stata una che se ne sta lì con le mani in mano, fare e agire sono il
fulcro stesso della mia esistenza e insomma…al momento sono davvero troppo in ansia per
chiudere gli occhi e fare un riposino. Non con le luci accese, il continuo viavai degli infermieri
e quel brusio sommesso proveniente dalle luci al neon della corsia sopra la mia testa.
Qualcuno dovrebbe proprio riconsiderare la gradazione dell’illuminazione, virando dal freddo
ghiaccio a un’ambra più caldo e accogliente.
Sospiro e malgrado tutto provo a rilassarmi, ma quando sento il nome di Fontana mi tiro
bruscamente a sedere, il cuore a mille.
«Come sta?» chiedo a nessuno in particolare.
Le due infermiere ferme in accoglienza si voltano a guardarmi con diffidenza. «Chi?»
chiedono di rimando.
«Il signor Fontana» balbetto. «Sono venuta qui con lui e-»
«E’ per caso una parente?» il tono è formale, ma percepisco l’insofferenza nei loro occhi.
«Sì» mento senza nemmeno pensarci.
Non mi credono, ovviamente, ma il fatto che mi trovi su una barella mi conferisce un certo
spazio di manovra.
«Sta bene» dice infatti una. «Lo stiamo trattenendo per alcuni accertamenti, ma a parte il
naso rotto non sembra aver riportato danni.»
«Questi pirati della strada…» commenta l’altra prima di voltarmi le spalle e allontanarsi.
Riprovo a sdraiarmi supina sulla barella, gli occhi sbarrati a causa sia di quell’ignaro insulto
che mi hanno rivolto sia per la notizia appena ricevuta: lui sta bene, è sano e salvo. Ma gli
ho rotto il naso.
Con il naso rotto è ancora possibile fare un servizio fotografico decente?
La domanda mi perseguita finché, a luci spente e reparto finalmente silenzioso mi arrischio a
lasciare la mia branda per cercare la camera del signor Fontana.
So che è contro le regole, ma l’essere stata abbandonata a me stessa nel centro della corsia
del Pronto Soccorso mi spinge in qualche modo alla clandestinità: del resto se gli stessi
infermieri si sono dimenticati del protocollo, perché dovrei seguirlo io?
E poi non ho intenzione di dare fastidio a nessuno, men che meno al signor Fontana. Ho
solo bisogno di scoprire dove si trova per guardarlo bene in faccia e capire se ho solo perso
il lavoro o sto per andare incontro a una qualche causa legale dalla quale non saprei bene
come uscirne, date le mie limitate disponibilità finanziarie.
Non che io sia davvero povera, ovviamente, ma lui è decisamente più…
Lo identifico nella semioscurità della camera dove l’hanno alloggiato. A differenza della
corsia dove mi trovavo io, qui i medici hanno spento le famigerate luci al neon al centro della
stanza in favore di un paio di faretti posti sopra al letto, decisamente meno fastidiosi.
L’atmosfera è calma e raccolta, perfetta per conciliare il sonno in cui il signor Fontana
sembra trovarsi.
Mi avvicino con cautela, concentrandomi sul suo petto che si alza e abbassa a intervalli
regolari, poi mi fermo. E impreco sottovoce.
Rispetto al viaggio in ambulanza, il viso mi pare messo ancora peggio di prima, con scuri
aloni neri sotto gli occhi e un fasciame di imbottiture che gli nascondono naso e sopracciglia
lasciando a malapena scoperti gli occhi.
E’ davvero messo male.
Mentre percepisco la punta delle dita pizzicare e un familiare fischio inondarmi le orecchie
afferro la prima sedia che mi capita a tiro e mi ci accascio sopra con un gemito.
Maledizione. Maledizione….
«Elly?» mi raggiunge una voce a breve distanza.
Mi blocco con ancora le mani sul viso, terrorizzata quasi fossi stata colta in flagrante nel bel
mezzo di un terribile misfatto, poi alzo lo sguardo e incontro quello dell’uomo che mi sta
guardando.
Nella luce ovattata, Gabriele Fontana sembra avere occhi ambrati, profondi e intelligenti.
Ma forse è solo il contrasto con i lividi delle orbite, tanto scuri da farlo sassomigliare a un
panda un po’ smagrito.
Reprimo un gemito, poi allontano le mani. Scuoto il capo. Sto anche per rispondere ma lui
mi precede.
«Tu sei la pirata.»
La pirata?
«Quella che mi è venuta addosso. Ti ho vista prima dello schianto.» riformula lui con tono
sorprendentemente chiaro. Non sembra si sia appena svegliato, e per un attimo mi chiedo
se anche prima stesse realmente dormendo.
«Le chiedo scusa» balbetto stringendo le mani sopra le ginocchia. «Sono davvero
mortificata per ciò che è successo.»
Fontana mi osserva per un momento, poi sospira. «Lo credo bene. Se non fossi certo del
contrario giurerei che è stato un tir a investirmi, non una…che macchina hai?»
«Un pick up.» Mi mordo le labbra.
«Carino» sospira lui. «Bel paraurti.»
Era del mio ex, sto per dire, ma mi blocco appena in tempo.
Del resto non credo sia il caso di parlare di defunti a qualcuno che è appena sopravvissuto a
un incidente, no?
«Stai bene?» lo sento aggiungere dopo un attimo.
Il tono leggero e il fatto che mi stia dando del tu mi stupiscono, rendendo la risposta un po’
impacciata. «Spavento a parte, sì.»
«Neanche un colpo di frusta?» Sembra interdetto. «Qualche anno fa mi è capitato un
incidente simile e per settimane ho dovuto portare il collare.»
«Ha tamponato qualcuno?»
Sorride. «Purtroppo sì. Ma l’altro non è finito in ospedale.»
La stoccata va a segno e io nella mia mente posso già immaginare l’esatto momento in cui
mi licenzierà per avergli rovinato uno dei momenti più belli della sua vita.
«Stavi guardando il cellulare?» aggiunge.
«Perché tutti sono così convinti che stessi guardando il telefono?» mi acciglio.
«Sì o no?» non si scompone.
«Andavo solo troppo veloce e lei mi si è parato davanti all’improvviso.»
«Ah, quindi è colpa mia?» Capisco che si è innervosito dal tono, perché il viso resta
impassibile.
Il senso di colpa mi costringe subito a smorzare i toni. «Non stavo dicendo quello. Con la
polizia ho già chiarito tutto.»
«Ovvero?»
«Che lei non c’entra niente ed è tutta colpa mia.»
Mi osserva un attimo, poi sospira. «Bene. Perché questo piccolo incidente capita proprio in
un momento sbagliato della mia vita e pensare di dover litigare anche per quello…»
Lascia in sospeso la frase, ma penso comunque di sapere più che bene a cosa si riferisca: il
matrimonio, le foto, l’organizzazione del lieto evento…
In effetti ritrovarsi con un naso fratturato nel bel mezzo di un passo così importante non deve
riempirlo di gioia. Affatto.
«Le ho rovinato qualcosa?» dico con chiaro intento masochistico.
«A parte la faccia?»
Rimango in silenzio.
Lui sorride. «Sì e no…in realtà niente» sospira infine. «Ma immagino che anche tu avessi i
tuoi problemi, visto che andavi così veloce. A meno che tu non sia una pilota di rally in prove
libere, eri parecchio di fretta, no?»
Mi blocco. «Più o meno.»
«Cena con i tuoi?»
Mi ci vuole un attimo per capire a cosa si stia riferendo e poi sì, d’improvviso realizzo per
l’ennesima volta che questa notte è la vigilia di Natale e mi trovo in ospedale, con il mio
cliente, a pochi giorni dal momento più importante della sua vita. Ma lui ancora non sa nulla
su di me, a parte essere la donna che certamente gli ha rovinato una mezza dozzina di piani
per la serata.
La consapevolezza mi affossa, e d’improvviso mi ritrovo a sprofondare nella sedia quasi mi
avessero attaccato alle spalle una trentina o più di chili.
«Non fa niente» dice lui. «In realtà non avevo grandi aspettative per stasera. La terribile
suocera e i suoi nauseabondi plumcakes non mi avranno, per una volta.»
Sorrido.
Suocere e dolci erano anche il mio cruccio quando stavo con Andrea. Più la suocera, in
realtà, ma ora è vecchia storia.
«Fossi in lei non canterei tanto presto vittoria» butto lì per fare la simpatica. «Se è una
suocera vecchio stile, a breve potrebbe trovarsela qui con il menù al completo.»
Sorride. «In realtà no. Ho chiesto a lei e a tutta la famiglia di non venire. La vigilia per loro è
sacra e preferirei che se la godessero piuttosto che starsene qui con me su una sedia
malandata a rimpiangere il cenone.»
I suoi occhi cadono sulla seduta malferma dove mi sono accasciata e per un attimo
comprendo il suo pensiero. A nessuno di quelli a cui voglio bene augurerei di passare la
vigilia qui, in pronto soccorso.
«E’ un bel pensiero» rifletto stringendo le braccia al petto.
«In realtà speravo che la mia ragazza se ne fregasse e venisse comunque a trovarmi»
ammette con un breve sorriso, «ma a quanto pare sono stato troppo convincente.»
Scoppio a ridere, per una volta di gusto, immaginando la faccia di lui al termine della
chiamata in cui la suddetta fidanzata gli augurava “buonanotte e felici feste”, poi scuoto il
capo.
«E tu?» riprende con un’occhiata più calda. «C’è qualcuno in sala d’attesa che ti sta
aspettando?»
Il sorriso si spegne. «Non sono di qui, e se anche se avessi voluto contattare qualcuno, ho
dimenticato il mio cellulare in macchina per cui…» Mi stringo nelle spalle.
Lui sembra allarmarsi. «Quindi nessuno sa cosa ti è successo?»
Sbatto le palpebre, interdetta. No, e allora?
Si agita ancora di più. «Prendi il mio cellulare. Ok che non ti sei fatta niente, ma non vorrei
che qualcuno si preoccupasse per te.»
Quando lo vedo muoversi e sporgersi verso il comodino scatto come una molla e senza
pensarci gli appoggio le mani sulle spalle per bloccarlo.
«Va bene così» esordisco un po’ in affanno. «Non serve chiamare, non ho nessuno che mi
aspettava questa sera, per cui è tutto ok.»
«La sera della vigilia?» si acciglia lui.
Mi sorprendo a fissarlo negli occhi, ora più accesi nella morbida luce dei faretti. Il suo petto è
solido sotto le dita e per un attimo riesco a percepirne il calore attraverso i polpastrelli e il
sottile maglione di lana che indossa.
Ritraggo le mani.
Sapevo che Gabriele Fontana era un bell’uomo, il suo profilo instagram e la pagina facebook
me ne avevano già dato un’adeguata anteprima mentre facevo un paio di ricerche in vista
del servizio fotografico, ma dal vivo è tutt’altra cosa.
E’ davvero bello, fasciature a parte.
Mentre la luce calda gli sfiora gli zigomi, mi ritrovo a immaginare come apparirebbe quel viso
senza i lividi che la mia guida spericolata gli ha causato, senza le ammaccature e senza
quella strana espressione che ora gli si è dipinta in volto.
Sembra…
«Mi scusi» reagisco subito in risposta alle sue sopracciglia aggrottate.
«Come hai detto che ti chiami?» mi stupisce.
Non l’avevo detto.
Sto per rispondere quando un’infermiera irrompe nella stanza, bloccandomi. Basta uno
sguardo per capire che non è contenta di ciò che vede, soprattutto della mia presenza in
camera di Fontana.
«Lei è un familiare?» chiede squadrandomi da testa a piedi.
So che se risponderò di sì lei mi caccerà via, adducendo che questo non è orario né luogo
per le visite, così provo a dire la verità.
«Una paziente. Sono stata ricoverata poco fa e ora mi tengono in osservazione in corridoio.»
«Non le hanno assegnato una camera?»
Scuoto il capo. «Erano piene. Credo volessero mettermi in chirurgia ma alla fine hanno
rinunciato.»
La donna stringe le labbra. «E cosa fa qui adesso?»
«Cercavo il bagno, ma non trovandolo ho chiesto informazioni.»
«Perché non si è rivolta a un infermiere?» si acciglia lei.
«Perché non ce n’erano in giro. E poi credo di essermi persa.»
Lei mi squadra imperiosa, evidentemente poco convinta della mia spiegazione, ma l’ora
tarda e le evidenti occhiaie
sotto gli occhi sembrano per una volta giocare a mio favore.
«Venga» mi dice infine, «le mostro io dov’è il bagno. E la prossima volta che ha bisogno di
qualcosa vada al centralino così che le possano chiamare qualcuno, al posto che
gironzolare per le camere.»
Sollevata – e un po’ abbattuta in realtà – mi rassegno a seguirla. Prima di uscire però mi
arrischio a guardarmi alle spalle per scambiare un’occhiata di commiato con Gabriele. Lui
risponde alzando la mano e facendomi un cenno di saluto, gli occhi sereni e la bocca un po’
all’ingiù come se tutto sommato anche a lui dispiaccia essere stati interrotti così.
Due ore dopo, quando le lancette dell’orologio a parete sopra la grande porta che dà alla
sala d’attesa segnano le zero zero sono stupita di intravedere la sua figura muoversi
silenziosa lungo il corridoio, le pesanti fasce attorno alla testa che risaltano nell’uniforme
grigio-verde della corsia. Incerta allontano il cruciverba che ho rubato alla receptionist in
dormiveglia e mi metto meglio a sedere.
«Che cosa ci fa qui?»
Lui non risponde, e con un sorriso cava fuori dal nulla due bicchierini di plastica dai quali
proviene un aroma dolce e caramellato.
«Buon Natale» sussurra porgendomene uno. «Spero che il cioccolato sia di tuo
gradimento.»
In realtà lo adoro, ma per qualche ragione non riesco a dirlo subito mentre allungo una mano
per accettare il gesto. Nel farlo gli sfioro le dita, calde quasi quanto la bevanda. Sobbalzo.
Poi mi do della stupida.
«Grazie» balbetto infine.
«Figurati. Dopo essere stata cacciata via mentre vegliavi su un povero infermo era il minimo
che potessi fare.»
«Ti ricordo che sei qui per colpa mia» adduco. Troppo tardi mi rendo conto di essere
scivolata dal lei al tu. Arrossisco.
Lui mi sorride da dietro le bende. «Beh, anche tu. A proposito, ti scoccia se mi unisco?»
indica la Settimana Enigmistica con fare bramoso. «Il cellulare si è scaricato e non riesco a
prendere sonno. Inoltre sono un grande fan di Bartezzaghi.»
Ah sì? A me invece dava proprio sui nervi, dato che non riuscivo mai a completare i suoi
cruciverba senza ricorrere a Google o qualche suggerimento.
Sorrido e gli faccio posto, stupendomi di come il cigolio della barella risulti gradevole mentre
lui ci sale sopra senza sforzo.
«Dunque» esordisce dopo un secondo alzando la cioccolata in un brindisi improvvisato.
«Alla fin fine posso sapere con chi ho avuto l’onore di scontrarmi?»


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