Natale perfetto a Berlino

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di Ilari C.

Giulio affondò la forchetta nel vitello tonnato, senza decidersi a mangiarlo. C’era qualcosa di decisamente poco attraente nella salsa di un color rosa sbiadito che ricopriva la carne, o, forse, era solo colpa del suo cattivo umore e il nuovo ristorante non c’entrava niente.  

A giudicare dal modo in cui il suo fidanzato, Niccolò, stava divorando con gusto l’insalata alla rucola e parmigiano, l’opzione giusta doveva essere la seconda.  

Le luminarie ammantavano gli arredi e le vetrine del locale, era un bel posto, ma questo non lo aiutava a ritrovare l’appetito. Da quando lui e Niccolò si erano trasferiti a Berlino, un anno prima, andavano alla ricerca di ristoranti italiani. Fingersi scandalizzati dal fatto che le mozzarelle non somigliassero mai a quelle napoletane o entusiasmarsi quando qualcosa ricordava i sapori italiani era uno dei loro passatempi più divertenti. Gli amici li prendevano in giro, paragonandoli a una coppia di cinquantenni espatriati.  

«È così cattivo?», domandò Niccolò, la sua attenzione finalmente attirata da qualcosa che non fosse il piatto che aveva davanti.  

«Non lo so», rispose Giulio laconico. 

Niccolò increspò la fronte e strinse gli occhi neri. «Già… per saperlo dovresti assaggiarlo. Tutto bene? Credevo che Natale fosse il tuo periodo dell’anno preferito». 

Sì, lo era. Amava la città vestita a festa, i locali di Schöneberg animarsi più del solito, i mercatini, come quello di Gendarmenmarkt e quello allestito di fronte al castello di Charlottenburg, l’aria frizzante per le strade, la maestria degli artigiani. Al mercato di Gendarmenmarkt era legato uno dei ricordi più belli della sua storia d’amore: Niccolò gli aveva chiesto lì, un anno prima, tra gli odori dei manicaretti natalizi, se volesse seguirlo a Berlino, dove era stato assunto come ingegnere gestionale a ventisette anni. La sua risposta non poteva essere che positiva. Si era innamorato di Niccolò la prima volta che lo aveva visto, anche se l’altro era scettico in proposito e con il suo carattere pratico lo prendeva in giro. Volevi solo dare un assaggio a questo bel corpo, diceva.  

Si erano conosciuti proprio a Berlino, nel quartiere di Schöneberg, famoso per i locali gay e la sua accoglienza verso la comunità LGBTQ+. Giulio era lì in vacanza con un paio di amici, per mettersi alle spalle una relazione sbagliata che aveva lasciato troppi segni su un ventunenne desideroso di amare e di essere ricambiato. Niccolò lo aveva attratto per il suo corpo atletico e i tratti mediterranei, ma poi erano stati la sua solidità, la sua capacità di tenerlo ancorato nel mare delle sensazioni da cui Giulio troppo spesso si lasciava trascinare, la sua praticità un po’ spiccia – a volte anche troppo – a fargli battere il cuore.  

Avevano scoperto di vivere a poca distanza l’uno dall’altro in Toscana e da lì niente aveva potuto fermare il loro sentimento, neanche le opinioni della famiglia di Giulio. 

«Allora?», lo incalzò Niccolò, riscuotendolo dai suoi pensieri. 

Il vociare nel ristorante era scemato e da un pezzo non entravano più nuovi clienti.  

«Certo che è il mio periodo preferito, è solo che la tesi mi ossessiona», disse, passandosi una mano tra i capelli castani. Una parziale verità, un’omissione. La sua coscienza l’avrebbe chiamata una bugia bella e buona. 

Niccolò allungò una mano sulla sua. «Andrai benissimo, ormai devi solo rivedere i dettagli, e il  prof. ti ha rassicurato. Piuttosto, domani prendo la giornata libera così andiamo ai mercatini». 

Giulio sottrasse la mano con la scusa di dover bere un sorso di vino. «Rimandiamo, per favore». 

«Ancora? Mancano due settimane a Natale e a stento abbiamo un albero». Niccolò si morse le labbra, come per fermare le parole che rischiavano di venir fuori dalla sua bocca. «Okay, ci andiamo un altro giorno», disse, e si concentrò sulla sua cena.  

                                                          ******* 

I mercatini natalizi di Gendarmenmarkt brulicavano di turisti e berlinesi. Nella piazza, incastonata tra due chiese e il Konzerthaus, sala dedicata ai concerti di musica classica, i venditori mostravano merce di tutti i tipi, dai classici addobbi natalizi ai ciocchi di legna da ardere nel camino. Non mancavano presepi a grandezza naturale e persino banchi che vendevano gelati.  

Tra le classiche casette di legno spuntavano svettanti le cupole delle due chiese e la statua dedicata al poeta Schiller. 

Giulio inspirò il profumo del vin brulè. La cannella, i chiodi di garofano e la scorza di arancia gli infondevano tranquillità, e dio sapeva se ne aveva bisogno.  

«Vuoi?» Niccolò gli mise sotto il naso il suo currywurst, wurstel di vitello affogato nella salsa speziata.  

Lui lo allontanò con la mano. «No, piuttosto facciamo presto». 

«Siamo appena arrivati». Sulla fronte di Niccolò apparve la solita ruga longitudinale che rivelava la sua impazienza.  

«Che ne dici di questi?» Giulio indicò una serie di pupazzi di marzapane.  

«Pensavo a qualcosa di più permanente, che non venga azzannato dai nostri amici». 

Camminarono lungo le bancarelle. Giulio provò a interessarsi a qualche decoro, a qualsiasi pupazzo o pallina che lo distraesse dal messaggio che aspettava. Intanto le nuvole si erano tinte di viola e le luminarie baluginavano nel cielo che si imbruniva.  

«Mi dai l’ultimo sorso di vino?», gli domandò Niccolò. 

«Perché non te lo compri, che palle», sibilò Giulio. Si pentì subito della sua risposta brusca e gli passò il bicchiere. Doveva calmarsi.  

Niccolò si limitò a rivolgergli uno sguardo sbieco e a bere quello che rimaneva del vin brulè. Poi si rianimò, attratto dalle mele caramellate e al cioccolato. Giulio ne approfittò per controllare il telefono, la mano tremò. Come era possibile che non si fosse accorto della vibrazione?  

Non era sorpreso del contenuto del messaggio inviato da sua madre, ma fino all’ultimo si era illuso che lei e suo padre potessero cambiare idea. Aveva invitato entrambi a trascorrere il Natale a Berlino, ma lei tentennava. Sai, il viaggio. Tua sorella avrà bisogno di aiuto con il bambino. Lo conosci tuo padre, ha paura dell’aereo

Tutte spiegazioni logiche, ma che avevano il sapore rancido delle scuse. Suo padre non aveva paura di prendere l’aereo per andare in Salento e risparmiarsi lunghe ore di treno o di auto. Il viaggio lo avrebbe pagato Giulio, se il problema fossero stati i soldi. Sua sorella aveva una suocera dolce e disponibile che l’avrebbe aiutata con il bambino, inoltre erano stati da lei già lo scorso Natale. Perché da lui non venivano mai? Il perché lo sapeva, ma preferiva non dirselo. 

Rimise in tasca il telefono e raggiunse Niccolò, che sorrideva come un bambino.  

«Guarda, amore», gli disse il suo ragazzo, con l’espressione entusiasta che lo rendeva irresistibile, ma che a lui stava dando sui nervi. Indicava le mele ricoperte di cioccolato. «Le prendiamo?» 

«Dobbiamo andare, mi è venuto in mente che devo aggiornare la bibliografia della tesi». 

La mano di Niccolò rimase sospesa a mezz’aria. «Stai scherzando? Non credo che se lo fai stasera cascherà il mondo». 

«Non lo credi perché non riesci mai a metterti nei miei panni», disse Giulio. L’acidità delle sue parole gli bruciava la bocca, ma questa volta non era riuscito a mettere un freno al suo risentimento. 

Il suo tono di voce si era guadagnato l’attenzione di qualche turista, mentre il venditore di dolci fingeva di occuparsi dell’esposizione della merce. 

Tra i due ragazzi calò un teso silenzio, interrotto da una serie di trilli. Era la suoneria di Niccolò. Giulio aveva notato che ultimamente l’altro passava più tempo del solito al telefono, ma il suo risentimento non dipendeva solo da quello. Non pensava che Niccolò avesse un amante, ma era abituato al suo lasciarsi coinvolgere dagli amici, vecchi e nuovi, che attirava come i krapfen ripieni di confettura attiravano i bambini. Si sentiva trascurato, e in colpa per quel sentimento, in un circolo vizioso che gli ultimi eventi avevano acuito.  

«Rispondi, io me ne vado a casa», disse, e si voltò senza neanche dargli il tempo di reagire.  

La casa che avevano affittato con la speranza di acquistarla lo attendeva come un porto sicuro. Era un loft nel cuore del quartiere di Schöneberg. Un attico, le cui pareti con mattoni a vista lo facevano apparire stravagante, una sorta di ambiente industriale trasformato in abitazione. Un po’ freddo, forse, ma i mobili dai colori caldi e i quadri astratti regalavano al posto un po’ di anima.  

Giulio sprofondò sul divano. Il suo portatile era lontano e lui non aveva intenzione di alzarsi per prenderlo. D’altro lato la bibliografia della tesi era solo una scusa per tornarsene a casa e non dover parlare a Niccolò dell’ennesima delusione che i suoi genitori gli avevano dato. 

Gli addobbi natalizi, seppur pochi, gli misero tristezza. I suoi genitori non erano mai venuti di persona a vedere la casa dove si era sistemato, e anche quest’anno Giulio doveva accettare la realtà: sebbene non gli avessero mai rivolto parole omofobe, a loro non andava bene avere un figlio gay.  

Non gli avevano fatto scenate quando, due anni prima, Giulio aveva rivelato che Niccolò non era un semplice amico, ma non poteva ignorare il fatto che da quel momento i loro rapporti si erano raffreddati. Avrebbe preferito da parte loro rabbia piuttosto che indifferenza.  

Dopo il coming out non c’erano state grandi parole, se non per esprimere una costernazione che dimostrava quanto la notizia fosse inaspettata. Al principio Giulio aveva pensato che la loro vita abitudinaria, scandita da rigidi orari – la mamma era insegnante, il papà impiegato nella pubblica amministrazione – avesse contribuito a creare una sorta di timore. Magari, si diceva, la sua omosessualità era un qualcosa che non si aspettavano e come tale andava digerita per entrare nell’oliato meccanismo della famiglia. Ma erano passati due anni. Della cosa non avevano fatto più parola, a Berlino non erano mai venuti, a stento chiedevano notizie di Niccolò. 

Il cigolio dei cardini della porta d’ingresso lo riscosse. Non si era accorto che fosse passato tanto tempo. Il cielo si era ormai del tutto scurito e le luci della strada si intravedevano attraverso la tenda. 

Niccolò lasciò cadere sul pavimento un cartone con un tonfo sordo. «Ho pensato di scegliere da solo qualche addobbo, tanto a te non interessa». 

Si liberò della sciarpa e del cappotto, e sedette a terra.  Con le sue dita eleganti e sottili cominciò a scartare le palline e i festoni dalle loro confezioni. Era infuriato. Giulio poteva dirlo dal modo in cui non lo stava degnando di uno sguardo.  

«Hai fatto presto ad aggiornare la bibliografia», aggiunse Niccolò, poi sembrò volersi immergere ancora nell’operazione addobbi, ma qualcosa gli fece cambiare idea. 

Sollevò la testa e puntò le sue iridi scure in quelle oliva di Giulio. «Mi spieghi che cazzo ti succede? E non dirmi che è per la tesi, perché non sono un idiota e so benissimo che non c’entra nulla, non a tal punto da farti passare la voglia di festeggiare il Natale con me». 

 «I miei genitori non vengono neanche quest’anno, c’era davvero bisogno che te lo dicessi?», gli sputò in faccia.  

«Vuoi che ti legga nel pensiero adesso? Cosa c’è di sorprendente? Non sono venuti lo scorso Natale, non sono venuti a Pasqua, non sono venuti per il tuo compleanno. Cosa vuoi che faccia?» 

Giulio graffiò la tappezzeria del divano. Era questo che gli dava sui nervi: secondo Niccolò avrebbe dovuto rassegnarsi, accettare il rifiuto dei suoi genitori e considerarsi già abbastanza fortunato a non essere stato attaccato verbalmente o fisicamente. Lo faceva sentire come se i suoi sentimenti non contassero, ma la predica veniva dall’altare sbagliato, dato che i genitori di Niccolò, invece, avevano accettato tutto con entusiasmo, erano venuti a Berlino più volte e volevano bene a Giulio come se fosse stato un figlio. 

«Vorrei che mi capissi». 

«Ti capisco, ma non fino al punto da accettare che questa cosa ci rovini le feste». 

«Mi dispiace, immagino che tu abbia già un programma fitto da rispettare messo a punto con i tuoi amici, la metà dei quali conosci da un mese, e che per te io sia solo una palla al piede». 

Niccolò lasciò andare un festone, che ricadde leggero sugli altri adagiati nel cartone. «Bene, vuoi sfogarti con me: va’ avanti, sono qui che ascolto le tue recriminazioni». 

La lama del senso di colpa lo squarciò. Era ingiusto? Ma perché Niccolò pretendeva che lui facesse finta di niente? Lasciò cadere le mani su un cuscino. «Mi dispiace, okay, ma non riesco a fingere allegria. Oggi mia madre mi ha mandato un messaggio e mi ha fatto capire che non verranno. Ha usato le solite scuse, in più pare che preferisca passare il Natale con il suo nipotino», disse, e si sentì ridicolo perché, diamine, non poteva essere geloso di un bambino a cui voleva bene da morire e che era suo nipote. 

Niccolò riprese a scartare le palline, ma non distolse lo sguardo. «Se e quando avremo un bambino non sarà per fare concorrenza a tua sorella». Le sue labbra si incresparono in un accenno di sorriso, come il pelo di uno stagno accarezzato da un vento debole. 

«Pianifichi di stare con me a lungo?» 

Niccolò lo raggiunse sul divano e gli accarezzò il volto. Le luci morbide delle lampade ombreggiavano i suoi zigomi e sottolineavano la forma delle sue labbra piene.  

Giulio avrebbe voluto dimenticare la delusone, la tesi, il messaggio di sua madre. Ma non ci riusciva. Non c’era un interruttore da poter schiacciare per farsi assalire dallo spirito natalizio. Niccolò tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un sacchetto di plastica. I biscotti che esso conteneva erano a forma di stelle, renne, campane e profumavano di mandorla, cannella, cardamomo. I bambini li amavano e per loro rappresentavano il Natale che si avvicinava. Era stato uno dei primi dolci tipici che avevano scoperto quando si erano trasferiti a Berlino il primo anno, ma a quel tempo Giulio era ancora animato dalla speranza di cambiare le cose con la sua famiglia. 

«Ho pensato a te, anche se sei stato cattivo», disse Niccolò, mettendone uno sotto il suo naso.  

Lui lo addentò, poi assaporò con le spezie il bacio di Niccolò, sentì la sua mano che si insinuava sotto il maglione, le dita calde, le labbra che si spostavano sul collo per poi risalire sul lobo. 

Niccolò era pratico in tutto, anche nell’idea che questo bastasse a risollevargli l’umore. Forse, in fin dei conti, era lui ad avere torto: che gli costava provarci? 

«A proposito della cena di Natale, devo dirti una cosa», sussurrò Niccolò. 

«Cosa?» Iniziava a sentire il suo profumo, l’effetto inebriante del muschio bianco e della sua pelle. 

«I miei genitori saranno nostri ospiti». 

Giulio si sentì gelare. Affondò le dita nelle spalle dell’altro. Bel modo per farlo rilassare. Avevano appena parlato di quanto lui stesse male per il rifiuto della famiglia e Niccolò gli diceva questo? Avrebbe almeno potuto aspettare un altro momento. 

«Basta», disse, allontanandolo. 

Sul volto di Niccolò si dipinse un’espressione talmente stupita che in un’altra circostanza Giulio l’avrebbe trovata divertente. 

Si passò le mani tra i capelli castani e reclinò la testa sulla spalliera del divano. «Non è davvero giornata». 

«Aggiungerò la mia famiglia all’elenco di cose da non nominare». Niccolò scosse la testa. «Certe volte non so come prenderti». 

«Per me è difficile accettare la reazione dei miei genitori, la loro indifferenza». 

«Lo so». 

«Non credo tu capisca quanto». 

«Solo perché i miei non hanno fatto problemi e non sono omofobi trogloditi non significa che sia un insensibile». 

Giulio balzò in piedi. «Hai proprio ragione: tu non sei un insensibile, sei uno stronzo insensibile».  

«Cazzo, aspetta». Sul viso di Niccolò apparve l’ombra del pentimento, tentò di trattenerlo. 

Giulio non aveva voglia di prendere la sua mano, di ascoltare le sue scuse. Era troppo sensibile? Troppo esigente? No, era solo un ragazzo che cercava conforto dal suo fidanzato e l’ultima cosa di cui aveva bisogno era sentirlo parlar male dei suoi genitori. 

Si svestì e si infilò sotto le coperte. Quando Niccolò scivolò al suo fianco, finse di dormire. 

                                                         ******* 

Una lama di luce ferì i suoi occhi. Giulio li aprì lentamente, ancora assonnato. Possibile che Niccolò si fosse dimenticato di chiudere bene le imposte? Eppure glielo diceva sempre. Fu sul punto di ricordarglielo, ma poi le immagini della sera prima ritornarono vivide e odiose nella sua mente. 

Il letto era vuoto, Giulio tastò le lenzuola sgualcite dove Niccolò aveva dormito. Doveva già essere andato al lavoro e aveva preferito non svegliarlo. Lui, invece, non aveva bisogno di andare all’università in quei giorni. 

Si mise a sedere e prese il telefono, sperando in un messaggio chiarificatore, ma a scaldargli il cuore furono le parole di sua sorella: Mamma mi ha detto… ho cercato di farle capire che il suo aiuto non mi serve, se continua così il prossimo anno vengo io da te così sarà costretta a venirci anche lei  ; 

Digitò un paio di emoticons, poi si decise ad alzarsi. Dalle finestre entrava la luce di una mattina di sole, dal cielo gelido, azzurro e pulito. Si fermò sulla soglia del salotto, davanti a uno spettacolo che non si aspettava: l’albero di Natale era stato posizionato nel solito angolo e decorato con i festoni e le palline che Niccolò aveva comprato la sera prima. Festoni dorati e rossi addobbavano anche il finto camino e sul tavolo spiccavano i biscotti speziati.  

Intravide Niccolò sul terrazzo, mentre parlava al telefono. Non era andato al lavoro, quindi. Passeggiava avanti e indietro, senza curarsi del panorama di cupole e palazzi moderni che si stendevano come un tappetto sotto di lui. Con una mano si abbracciava la vita, con l’altra gesticolava, come se pregasse qualcuno. Niccolò non era il tipo da pregare. 

La stessa spiacevole sensazione della sera prima gli strinse lo stomaco. Chi diavolo occupava i pensieri del suo fidanzato tanto da indurlo a fare tardi al lavoro e a parlare sul terrazzo, schiaffeggiato dal vento freddo di dicembre? 

I loro sguardi si incrociarono. Niccolò corrugò la fronte. Poi sorrise, mettendo via il telefono. 

Le sue labbra, quando si posarono sulle sue, erano gelate. 

«Credevo fossi già al lavoro», disse Giulio. Altre domande non voleva farne, non in quel momento. 

«Può aspettare per oggi, in fondo mancano pochi giorni a Natale e mi sono meritato una pausa. Ascolta, mi dispiace per ieri. Sono stato impulsivo e ingiusto, solo che non sopporto di vederti soffrire e non sopporto chi ne è la causa». 

«E questo?» Giulio fece un cenno alla stanza addobbata. 

«Ho pensato che se non eri dell’umore era inutile forzarti, però ho lasciato il meglio per ultimo: il pinnacolo possiamo metterlo insieme». Le braccia di Niccolò si allungarono sulla sua vita fino ad attirarlo sé. Sapeva di muschio bianco, di aria frizzante, dell’odore di plastica che le decorazioni chiuse per tanto tempo si portavano addosso.  

Giulio si abbandonò al suo abbraccio, al bacio che sentiva sincero. Niccolò non poteva mentirgli. «Stiamo insieme oggi? Magari spegniamo i telefoni». 

Un luccichio malizioso baluginò negli occhi di Niccolò. «Mmh… un bel programma». Le sue mani scesero fino a sfiorargli le natiche.  

«Magari quello dopo, pensavo di fare qualcosa di più natalizio insieme per farmi perdonare del mio scarso entusiasmo». 

«Oh», Niccolò finse un’aria delusa. «Bella idea, anche perché sono passato dal supermercato e ho comprato un paio di cose che potrebbero fare al caso nostro». 

Giulio lo precedette in cucina. «Sono così prevedibile?» 

«Sono io a essere ottimista, se ti ricordi bene è accaduto lo stesso quando progettavamo di trasferirci qui». Gli versò del caffè caldo. «Non preoccuparti, non voglio che tu dica che ho sempre ragione». 

Gli strappò una risata. I loro litigi finivano sempre allo stesso modo: un gesto carino, una battuta, una risata. 

Fecero colazione insieme, mentre il cielo si addensava di nubi biancastre e inaspettate. Gli ricordarono il giardino innevato del castello di Charlottenburg, uno dei posti che lui e Niccolò avevano visitato insieme e che gli aveva lasciato la sensazione di essere amato come mai gli era accaduto prima. Se solo i suoi genitori avessero potuto far parte del quadro… 

Scacciò via quei pensieri. Per quel giorno voleva dedicarsi a chi lo meritava.  

Niccolò tirò fuori dalla credenza nocciole, zucchero vanigliato e tutto ciò che serviva per preparare i vanillekipferln, biscotti a forma di cornettini cosparsi di zucchero a velo vanigliato.  

«Do un ultima occhiata ai messaggi, prima di spegnere il telefono», disse Niccolò. 

Giulio bevve l’ultimo sorso del suo caffè. Il volto del suo ragazzo era rilassato, e non credeva potesse avere tanta faccia tosta da inviare un messaggio a un amante davanti a lui. Doveva essere lavoro, cos’altro? 

«Chi viene per la cena di Natale?» 

Niccolò sedette di fronte a lui, le mani già sulle mandorle da sgusciare. «I miei genitori, i nostri migliori amici di qui e forse mia cugina, se riesce». 

«Non ci resta che cominciare a preparare tutto». 

Trascorsero due giorni sereni: niente discussioni, a eccezione sull’opportunità o meno di preparare anche i biscotti di marzapane e acqua di rose, e se fosse meglio un secondo di carne o di pesce. 

Tra i due era Giulio ad avere il tocco magico in cucina, lo aveva ereditato da sua madre, ma a questo era meglio non pensare. Tornarono anche ai mercatini e, tra gli odori di cibo, resina e cannella, scelsero un pinnacolo adatto al loro piccolo abete.  

A tre giorni dalla cena della vigilia tutto era perfetto. Giulio se ne stava seduto sul divano a osservare i fiocchi di neve che ammantavano piano i tetti e le strade. Chissà a Firenze…  

Incartava i biscotti di marzapane, mentre Niccolò, seduto sul tappeto, imbustava i biglietti di auguri. Il trillo del campanello ruppe l’ovattato silenzio. 

«Vai tu», disse Niccolò senza neanche alzare lo sguardo. 

«Come al solito», si lamentò lui. Aveva pronte altre rimostranze, ma i volti deformati che apparirono attraverso lo spioncino lo ammutolirono. «Non è possibile». 

Aprì la porta e si ritrovò investito dal profumo fiorato di sua madre e dalla colonia di suo padre. 

«Che ci fate qui?» 

                                                             ******* 

La caffettiera, preparata da Niccolò, gorgogliava, mentre l’aroma penetrante della bevanda si mescolava a quello del marzapane. 

Giulio vide il suo ragazzo e suo padre sul terrazzo parlare come due vecchi amici.  

Sua madre se ne stava seduta di fronte a lui, le mani incrociate sul tavolo.  

«So quello che ti avevo scritto, ma quando Niccolò ha chiamato io, ecco, ho capito che stavi fraintendendo il nostro atteggiamento».  

«Non capisco, mamma». 

«Vogliamo solo la tua felicità. Se non abbiamo mai più parlato della tua sessualità è perché avevamo paura di dirti la cosa sbagliata. “Chissà quante ne ha già sentite”, ci dicevamo. “Da noi non deve sentire altre stupidaggini”». 

Il viso della donna si era leggermente arrossato. Non era mai stata il tipo da sommergerlo di parole e gesti d’amore,   

«Perché finora non siete mai venuti a trovarmi?» 

«Per lo stesso motivo. Pensavamo fossi felice di farti la tua vita qui, un posto dove ti senti a tuo agio, più che in Italia, ma Niccolò mi ha fatto capire quanto avessi bisogno anche di noi. Oh, attento, sta uscendo il caffè». 

Giulio si precipitò a spegnere il gas, ancora tramortito dalle informazioni che aveva ricevuto.  

«Non ti mentirò: non ce lo aspettavamo e all’inizio temevamo il giudizio degli altri, ma per noi il problema non è che ami un altro uomo, la nostra è solo paura di vederti soffrire a causa di gente ignorante. Sono mortificata di aver trasformato la nostra preoccupazione in uno sciocco silenzio, potrai perdonarci?», domandò sua madre, la voce malferma.   

Giulio sorrise. Sì, la perdonava. Il suo Natale era perfetto e tutto per merito del suo ragazzo, che aveva squarciato un muro di silenzio.  

Aspettò che sua madre bevesse il caffè, poi parlò con suo padre e infine raggiunse Niccolò sul terrazzo. Posò la guancia sulla sua spalla. Sapeva di neve e di spezie. 

«Per questo stavi tanto al telefono?» 

«Ho capito quanto ci tenessi. Anche se mi accusi di essere un insensibile senza spirito poetico, non potevo permettere che passassi un altro Natale rimuginando sulla tua famiglia». 

«Perché non me lo hai detto? Hai lasciato che ti trattassi male». 

«Non volevo illuderti, non ero sicuro che sarebbero venuti né sapevo se tra voi il problema fosse davvero solo mancanza di comunicazione». 

«Grazie, amore. Il Natale non è ancora perfetto, se devo essere onesto». 

Sul volto di Niccolò apparve la solita ruga che gli solcava la fronte, la solita sorpresa mista a un senso di affronto nelle iridi nere.  

«Solo un tuo bacio, mentre nevica, lo renderebbe tale». 

Niccolò catturò le sue labbra mentre lui ancora sorrideva.  

Ora sì che il Natale a Berlino era perfetto. 


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